a casa di ross
a casa di ross
Un paio di anni fa ho acquistato e letto, con grande piacere, questo bel libro di Massimo Montanari: “Il cibo come cultura”, editori Laterza.
Montanari, ottimo scrittore di cose gastronomiche e di storia dell’alimentazione, (insegna Storia medievale e Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna), accosta dunque il Cibo alla cultura, precisando che il nesso è volutamente ambiguo e fondamentalmente improprio, perché i valori che sostengono il nostro sistema alimentare non possono essere definiti in termini di “naturalità”, ma come esito di vari processi culturali, che prevedono l’addomesticamento, la trasformazione, la reinterpretazione della Natura (io aggiungerei la violazione della Natura). L’Uomo non utilizza solo ciò che trova in natura, come fanno tutte le altre specie animali, ma crea il proprio cibo, sovrapponendo l’attività di produzione a quella di caccia. Il cibo è cultura quando si prepara, perché l’uomo lo trasforma tramite l’uso del fuoco e, ormai, un’elaborata tecnologia. Il cibo è cultura quando si consuma, perché l’uomo, pur potendo mangiare di tutto, in realtà sceglie il cibo, con criteri legati anche all’economia ed investendo il cibo di valori simbolici: il cibo è il frutto della nostra identità, ed uno strumento per esprimerla e comunicarla.
La domesticazione delle piante e degli animali consente all’uomo di farsi padrone, di superare il rapporto di dipendenza in cui era sempre vissuto: ma lo sfruttamento del territorio, la raccolta e l’attività di caccia richiede un “saper fare”, una conoscenza, appunto, una cultura. La stessa “invenzione” della città, percepita dagli antichi come luogo per eccellenza dell’evoluzione civile (civitas - città e civilitas - civiltà), non sarebbe concepibile senza lo sviluppo dell’agricoltura, sul piano materiale, con l’accumulo di beni e ricchezze, sia sul piano mentale perché l’uomo diventa padrone di sè e si separa dalla Natura, costruendosi uno spazio autonomo, separato, in cui abitare, (idea che ormai, secondo me, sta dimostrando tutti i suoi limiti). L’uomo “civile” si rappresenta slegato dalla Natura; e, osservo io, i danni di questa “filosofia” di vita, ormai li abbiamo sotto gli occhi, tutti i giorni. L’obiettivo che l’autore si propone è dimostrare che le varie culture si intrecciano, si sovrappongono, si uniscono, per creare sempre qualcosa di nuovo. Per esempio, i Romani disprezzavano i Barbari come inferiori, perché praticavano lo sfruttamento della foresta, la caccia e la pastorizia. Ma quando i Barbari divennero i padroni dell’impero, affermarono anche la loro cultura alimentare: cacciare e pascolare nel bosco non furono più ritenute attività sconvenienti ed incivili, anzi, diventarono il perno di una nuova economia. Bisogna anche dire che, però, assorbirono la tradizione agricola romana, sia per il prestigio che tale tradizione comunque conservava, sia per l’avvento del Cristianesimo, che aveva assunto a propri simboli liturgici appunto il pane, il vino, l’olio. Dall’incontrarsi di questi due percorsi , che si integrarono, prese avvio, durante il Medioevo, una cultura alimentare nuova, europea, che metteva sullo stesso piano il pane e la carne, l’attività agricola e lo sfruttamento della foresta, una cultura basata sulla complicità e sul reciproco sostegno di queste economie: due modelli di economia che i greci ed i latini avevano invece contrapposto (in realtà rappresentavano solo due modi diversi di costruire il rapporto tra gli uomini e l’ambiente): da ciò derivò un regime alimentare caratterizzato principalmente dalla varietà delle risorse e dei generi, da cui è scaturita la straordinaria ricchezza del patrimonio alimentare e gastronomico europeo, che ancora oggi lo rende unico nel mondo.
Quello che si comprende, dalla lettura di questo bellissimo volumetto, e che armonizzare i propri ritmi di vita con quelli della natura, è sempre stato un’esigenza primaria degli uomini, che hanno sempre cercato di controllare, modificare e contrastare i tempi della natura. L’utopia ed il progetto sono sempre stati quelli di un mondo in cui le stagioni non esistono ed il Tempo è controllabile: un paradiso dove un’eterna primavera consente di avere cibi sempre freschi, sempre pronti, sempre uguali a se stessi. La scienza e la tecnica inseguono quindi il sogno di prolungare il Tempo, di fermarlo. L’invenzione del frigorifero non ha solo consentito il miglioramento delle tecniche di conservazione del cibo, ma ha rivoluzionato il concetto di spazio: consentendo il trasporto del cibo stesso, si è voluto creare un mercato pressochè illimitato: il villaggio globale, appunto, che però nasconde uno scontro, non troppo sotterraneo, tra paesi ricchi e paesi poveri: Montanari sottopone alla nostra attenzione il gigantesco conflitto d’interessi contrapposti che caratterizza la società attuale, scontri per il controllo e l’uso delle risorse alimentari.
Il volume è breve, ma esplora anche il rapporto tra fuoco, cucina e civiltà, un artificio che trasforma il cibo , che crea forme, colori e consistenze che allontana il cibo dalla “naturalità”; in generale, la cucina si può definire come un insieme di tecniche finalizzate alla preparazione degli alimenti, ma queste tecniche, sempre più complesse, richiedono più tempo e maggiore abilità, ore ed ore di lavoro. Nei paesi meno industrializzati ciò è incluso nell’idea di cucina (basti pensare alla complessa preparazione del cous cous o delle tortillas), mentre nei paesi industrializzati la tecnica serve a dimezzare i tempi di preparazione (liofilizzazione e congelazione, per esempio).
E’ molto interessante il capitolo sulla cucina scritta e quella orale, e quello dell’ anti cucina, ed è veramente istruttivo leggere il capitolo sul piacere e salute. L’autore, con una scrittura semplice e brillante, fa riflettere sul piacere ed il dovere della scelta gastronomica, perché l’organo del gusto è il cervello, un organo culturalmente e storicamente determinato. La definizione del gusto fa parte del patrimonio culturale delle società umane, che cambia non solo tra diverse regioni e popoli, ma anche tra i gusti e le predilezioni nel corso dei secoli.
“La zuppa di cavolo deve sapere di cavolo, il porro di porro, la rapa di rapa” raccomandava Nicolas de Bonnefons, a metà del XVII secolo; un’affermazione banale, per noi, ma che rovesciava un modo di pensare e di mangiare consolidato da secoli. Il gusto rinascimentale e medievale, eredi di quello greco romano, aveva elaborato un modello di cucina basato principalmente sull’idea di artificio e di mescolanza dei sapori, per esempio: tenere insieme, più che separare, perché era ritenuto equilibrato, dalla scienza dietetica di allora, il pasto che contenesse tutte le diverse qualità nutrizionali, che recavano in sé i diversi sapori. Per esempio, il gusto per l’agrodolce deriva direttamente da un gusto che aveva caratterizzato la cucina romana. Altro carattere di base della gastronomia premoderna è la parsimonia nell’uso dei grassi; quella di cinquecento anni fa era una cucina fondamentalmente magra, che utilizzava, per le salse, ingredienti acidi come vino, aceto, succo di agrumi, agresto (succo di uva acerba), tenuti insieme con mollica di pane, fegato, latte di mandorle, uova. Le salse grasse, a base di olio e di burro, che al nostro gusto moderno sono familiari, come la maionese, la besciamella ed altre salse, sono di tradizione borghese del XIX secolo.... e si può quindi concludere che il gusto sia anche un prodotto sociale.
Montanari propone quindi una divagazione: il gioco della cucina storica, quindi scrive altri capitoli sulla geografia del gusto e del gusto della geografia, altri interessanti capitoli sul cibo come linguaggio ed identità, sul mangiare insieme, sul cibo come identità , scambio, tradizioni ed origini: per concludere che ogni cultura, ogni tradizione, ogni identità, ogni modello e pratica alimentare è un prodotto della storia, dinamico ed instabile, prodotto da complessi fenomeni di scambio e di assimilazione, incrocio, contaminazione, e derivato dalla circolazione di uomini, merci, tecniche, gusti differenti. Il volume contiene una ricca bibliografia, che consente un percorso, posteriore alla lettura del libro, più articolato e personale. Concludo dicendo che il libro costa solo 7 euro.
BIBLIOTECA GASTRONOMICA... E NON
giovedì 25 settembre 2008